Certo è che questo Trump è un problema.
Sta scombussolando il mondo economico e quello finanziario: le Borse sono agitatissime, i governi sono preoccupati e nel pallone, le multinazionali e le aziende che vivono di export sono in fibrillazione. Ha vinto le elezioni USA del novembre 2024 contro ogni aspettativa dei big della finanza USA e ha mortificato le speranze DEM. Le ha vinte, contro ogni previsione, con un margine consistente, a “furor di popolo”, come si dice in questi casi.
Gli erano tutti contro: in prima linea l’Europa e l’Occidente e anche la Cina. Ha vinto con un ben noto e preciso piano elettorale che, però, è stato infelicemente ignorato da tutti. E ora lui lo sta applicando, quel piano; tanto che Federico Rampini, il noto giornalista, le cui tendenze politiche sono ben conosciute, gli ha riconosciuto il merito di essere il primo Presidente USA coerente con le promesse elettorali. Sia ben chiaro che questa non è una difesa del Trump ma una descrizione dei fatti.
Come “Tycoon”, c’era da attendersi che fosse un liberista sfegatato. Invece sembra che pratichi il protezionismo, lo statalismo e il collettivismo.
Le sue dichiarazioni “Main Street non Wall Street” (Economa Reale e PMI, SI; Economia Finanziaria e Imprese Multinazionali, NO) creano confusione in tanti commentatori politici che appaiono un po’ spaesati e, così, si dedicano più che alle analisi politiche ed economiche a quelle psicologiche e comportamentali. “Rozzo, volgare, distruttore dell’ordine e del commercio mondiale e della democrazia” sono giudizi ricorrenti.
Purtroppo, partendo da queste premesse non si riesce a capire né Trump né la sua politica né suoi obiettivi né, tantomeno, a progettare una politica adeguata per affrontare questa tempesta. Abbiamo cercato di fare un po’ di chiarezza con il nostro articolo su “ZonaFrancaNews” del 6 aprile “https://zonafrancanews.info/2025/04/06/trump-detto-fatto/” e qui cerchiamo di esprimere un punto di vista alternativo.
Sembra che Trump voglia riportare negli USA le fabbriche e la manifattura. Come mai gli USA hanno perduto fabbriche e manifattura? La risposta appare essere che le imprese USA hanno “esternazionalizzato” la produzione rivolgendosi a manifatture “a buon mercato” per risparmiare sui costi da addebitare al prodotto finale. E’ lo stesso fenomeno che accade in Italia che qui prendiamo come esempio perché più vicino a noi. Le grandi aziende, come quelle della moda e la stessa Stellantis e altre hanno “esternalizzato” la produzione. Ciò significa investire all’estero, portare posti di lavoro all’estero, depauperare e de industrializzare il proprio Paese.
L’effetto appare comprensibile: i grandi industriali si arricchiscono perché il costo del semiprodotto importato, da etichettare in Italia, è più basso mentre il prezzo del prodotto finito rimane inalterato. E, poi, l’import cresce; la ricchezza si trasferisce al paese manifatturiero; le maestranze nazionali perdono il lavoro o si debbono accontentare di un lavoro di minore qualità. Questo lavoro può essere soddisfatto da competenze inferiori alla media nazionale. Il che può condurre a favorire, per necessità, una immigrazione selvaggia. Intanto, la grande industria, non investendo più nel proprio Paese, non ha bisogno di lavoro di qualità medio alta; il che favorisce la fuga dei cervelli.
Se questo sistema perdura nel tempo, allora il disastro economico finanziario è prevedibile e, con esso, la crisi del welfare, l’acuirsi del disagio popolare e della percezione che non c’è un futuro; l’instaurarsi della sensazione di insicurezza e la crisi della natalità. Ma non basta: si creano le condizioni per rendere difficile un qualunque riscatto economico e una qualunque possibilità di crescita.
Si conferma, così, che le dinamiche della società civile sono complesse e integrate; si conferma che abbiamo bisogno di una politica con visione sistemica.
Se questo è vero, come dovrebbe intervenire la politica per invertire il senso del flusso economico finanziario produttivo intellettuale?
La risposta che dà Trump è: chiudere le frontiere all’import per costringere i grandi industriali nazionali a investire nel proprio paese ricostruendo fabbriche generando posti di lavoro. Come si chiudono le frontiere? Ponendo dazi “significativi”. Con ciò si dovrebbero invertire i flussi. E l’inversione dei flussi ricostituirà equilibrio al sistema. Questa appare essere la visione di Trump.
Ma che succede se Paesi come l’Europa o la Cina dovessero preferire la “guerra dei dazi”? Trump non demorderà: è quello che è già successo con la Cina dove la bilancia dei pagamenti Cina/Usa è fortemente sbilanciata, per 4 a 1, a favore della Cina. Per questo Trump considera la Cina il vero competitor mondiale.
Allora la domanda: è preferibile convenire in accordi equilibrati e intelligenti per allineare l’import/export o arrivare alla chiusura delle frontiere?
Sembra che abbiano fatto bene tutti quei Paesi (sembra siano circa 75) che hanno chiesto agli USA di contrattare. Ciò ha indotto Trump a sospendere per 90 gironi l’applicazione dei dazi tabellati per consentire le contrattazioni. Alla fine, Trump è un businessman e le trattative sono la sua specialità.
In questo stato di grande incertezza, è del tutto plausibile che i grandi industriali, le multinazionali e i Paesi esportatori siano in fibrillazione.
Le multinazionali americane hanno dato il via alla concretezza del fenomeno della globalizzazione “esternazionalizzando” le produzioni. Minori costi da addebitare al prodotto finito, ma debbono importare semi prodotti da perfezionare in casa, magari con la semplice aggiunta di una etichetta. Quindi i dazi alla importazione dovrebbe invertire il fenomeno della produzione estera. Le multinazionali americane hanno un altro vantaggio: alla riduzione dei costi di produzione si aggiunge la facilità della vendita in house. Infatti negli USA non esiste l’IVA ma una sorta di “Sales Tax” che varia dall’ 1% all’11% a seconda degli Stati. Trump non aumenta la “Sales Tax” perché sarebbe un problema per il popolo ma induce le multinazionali a ripensare le strategie sollecitandole a investire in patria.
Abbiamo proposto un punto di vista differente ma è, comunque, evidente che il sistema economico finanziario mondiale si va assestando verso nuovi equilibri visto che le disuguaglianze superano oggi, di molto, i casi di equilibrio. Ci deve essere, però, una presa di coscienza e di consapevolezza dal parte di tutti, Usa in testa.
Antonio Vox